Per presentare la quindicesima edizione del Sicilia Queer si potrebbe cominciare da un discorso sul tempo e sullo spazio. Se questo festival – concepito, nato e realizzato a Palermo – sta riuscendo a conquistarsi un piccolo margine di originalità e di attenzione nel panorama nazionale e internazionale è forse anche perché si è via via sempre più liberato dalla pressione dell’attualità, dall’obbligatorietà di uno sguardo unicamente rivolto al presente, prefiggendosi il piacere di attraversare il tempo in maniera più libera, e così anche meno prevedibile. Non perché disinteressato al presente: tutt’altro. Anzi proprio a partire dalla convinzione che uno sguardo originale sul presente possa sorgere solo dalla sottrazione ad alcuni meccanismi futili e stringenti che sembrano caratterizzare la routine dei festival.
L’(auto)imposizione delle anteprime nazionali, ad esempio: narcisistica glorificazione del proprio – minuscolo – ombelico invece che tentativo di valorizzare il discorso che si prova a fare attraverso le opere che si sottopongono all’attenzione della comunità di spettatrici e spettatori che si ha davanti. Dentro il festival di quest’anno, in maniera forse più pronunciata che in passato, troverete il tentativo di accompagnare la scelta dei film con dei percorsi selezionati, pensati per ragionare criticamente non soltanto di cinema ma con il cinema – ennesimo sforzo di rinnovare un patto, insomma, un atto di fede (e di constatazione effettiva) nei confronti delle possibilità della settima arte. E allora i confini vengono meno, perché il nostro festival diventa l’approdo naturale per chi da altri paesi trova in esso la possibilità di sviluppare dei discorsi, di fare proposte ragionate, articolate, che diffidano del facile intrattenimento e vogliono muoversi senza limiti dentro la storia del cinema per comprendere, per stupirsi, per imparare. Fa parte della storia di questa manifestazione: il discorso ininterrotto che da molti anni Umberto Cantone porta avanti con le sue Retrovie italiane, quest’anno incentrate attorno alla figura di Laura Morante (con Giuseppe Bertolucci, con Bernardo Bertolucci) perché nella sezione Presenze abbiamo deciso di omaggiare il cinema dissensuale di Joaquim Pinto e Nuno Leonel, che Laura Morante avevano incontrato nel loro percorso. L’itinerario della Carte postale à Serge Daney, che con il critico francese ci porta a riscoprire testi dimenticati e sguardi meravigliosi, come quest’anno quello di Jacques Demy. Ma è soprattutto il caso, all’interno della sezione Panorama Queer, della proposta che ci è giunta da due persone che non conoscevamo ma che hanno riconosciuto nel Sicilia Queer un luogo nel quale sarebbe stato possibile sviluppare la loro idea (e dove altro, oggi in Italia, se non in rarissimi spazi?): si tratta dei giovani curatori Matteo Giampetruzzi e Călin Boto, con i quali, grazie ai quali presentiamo due programmi che si muovono tra il cinema sovietico muto e il cinema sperimentale nordamericano, mostrando film raramente visti in Italia ma soprattutto raramente programmati in questo modo, per esplorare la vita delle persone queer nei regimi comunisti (Homintern) o il discorso pubblico di patologizzazione dell’omosessualità nel mondo angloamericano degli anni Ottanta e Novanta (Corpi nella lotta).
E in un momento di sconvolgimenti internazionali come quello che stiamo vivendo, con lo sguardo sempre incollato su Gaza e una guerra in Ucraina che continua a non trovare soluzione, le nostre Eterotopie provano a interrogarsi su un altro paese che con la storia della Russia ha molto a che fare come la Georgia, dove da qualche anno (anche a partire da leggi anti-lgbtqi+ emanate dal governo) i/le giovani manifestano quotidianamente nelle strade. Cosa succede in Georgia? Lo abbiamo chiesto alla scrittrice Ruska Jorjoliani, con cui abbiamo costruito un percorso che si muove nella gloriosa tradizione del cinema georgiano, pensando a Paradjanov (che per omosessualità fu rinchiuso in carcere) e partendo dal primo film di Otar Ioseliani fino ad arrivare alle opere contemporanee di Elene Naveriani, Mariam Elene Gomelauri e Tiku Kobiashvili. A tutto questo si accostano naturalmente i due concorsi, di lungometraggi e di cortometraggi, in cui facciamo alcune scommesse – senza dimenticare che alcuni degli autori presentati in questi anni, come ad esempio l’indipendente americano Sean Baker, sono giunti oggi a una consacrazione internazionale anche da parte del grande pubblico e dell’industria più ufficiale.
Questo festival viene da un percorso economicamente difficile e accidentato, ma ha visto quest’anno una risposta straordinaria da parte della comunità di persone che lo frequenta e sostiene, che gli riconosce un valore autentico e ha deciso di investire personalmente dei soldi per salvarlo da profondi debiti. In una situazione nella quale la principale istituzione pubblica cittadina – il Comune di Palermo – non ha alcun pudore nel non finanziare con un solo euro il festival (mostrando una discrezionalità tanto discutibile da sfociare nel gratuito arbitrio, nella fattiva ostilità), decine di persone hanno deciso di sopperire con le proprie risorse per garantire alla città di non perdere questo spazio. È un gesto di cui siamo profondamente grati, ma che dovrebbe interrogare profondamente la crisi della politica e della rappresentanza: l’incapacità di riconoscere l’importanza (certamente minoritaria: e dunque?) di spazi indipendenti come il Sicilia Queer meriterebbe risposte che nessuno si degna più neanche di dare, perché domande che un tempo sarebbero state condivise non vengono poste, neanche più vengono in mente. C’è di che essere sconfortati. E tuttavia (caparbia ottusità) siamo determinati a non arrenderci. Dovremo fallire? Proveremo a farlo meglio, a farlo ancora. Senza padroni.
Proviamo nel frattempo a guardare al futuro, rivolgendoci al pubblico giovane (abbassando ulteriormente il costo del biglietto per invitare le nuove generazioni a frequentare sale oscure e grandi schermi) ma anche al giovane cinema che si misura con ciò che queer significa oggi, con un progetto come Under Queer – sostenuto da SIAE e dal Ministero della Cultura nell’ambito del progetto Per Chi Crea – che presenta gli sguardi di cinque registe e registi sotto i trentacinque anni, per ragionare con loro di come si scrive, come si realizza e come si produce un film indipendente oggi in Italia. È un progetto che speriamo possa avere una prosecuzione negli anni, per mappare quel che di più interessante in relazione al cinema queer si produce oggi in Italia. Come giovani sono gli artisti proposti nella sezione Arti Visive dal Verein Düsseldorf-Palermo e. V. nella mostra Wendepunkt, in uno scambio che continua a creare ponti tra la Sicilia e la Germania.
Tra gli elementi che ci fanno guardare al futuro con un po’ più di fiducia c’è la presenza crescente di nuove generazioni che si avvicinano al festival con consapevolezza e partecipazione attiva. Giovani che colgono nella sua natura progettuale non solo un’occasione di visione, ma anche uno spazio di elaborazione condivisa, un luogo dove sperimentare forme di militanza culturale, dove mettere in discussione i codici dominanti e immaginare alternative. È in questa tensione generativa tra passato e futuro, tra memoria e desiderio, che il festival trova nuova linfa e senso.
E infine, Palermo (oh cara). Nel trentennale della morte di Nino Gennaro, il premio che sin dalla prima edizione abbiamo intitolato a suo nome viene assegnato oggi a Massimo Verdastro, interprete per eccellenza degli scritti del poeta corleonese e che racconterà Nino Gennaro nella serata di pre-apertura del festival alla presenza di Aurora Quattrocchi, Francesca Della Monica, Nando Bagnasco, Massimo Milani, Silvio Benedetto, Pippo Zimmardi, Lina Prosa. Sarà una serata dedicata alla Palermo del sottosuolo, a quella storia sommersa della nostra città che è poco riconosciuta e ormai anche poco conosciuta, e che è invece opportuno ricordare e celebrare. La stessa ragione per la quale – per continuare a indagare il teatro indipendente di questa città – se la morte di Nino Drago nell’ottobre dello scorso anno è stata accolta glacialmente da una città che sa essere feroce e irriconoscente, ci è sembrato indispensabile e giusto tornare a parlare di lui, del Piccolo Teatro, di storie oggi rimosse.
Che una regista come Laura Citarella accompagni il festival con il suo trailer guardando dall’Argentina alla Sicilia per celebrare – con la Sicilia – il cinema tout court ci scalda il cuore, facendoci sentire che forse non tutto questo è stato fatto invano.